Andrej Zvjagincev firma con Loveless, Premio della Giuria presso l’ultimo Festival di Cannes, una caustica ballata sul disamore. Sin dalle prime inquadrature da paesaggio lunare alla fine del mondo, tanto care al cinema russo, sembra quasi d’essere catapultati dentro all’opera letteraria che per eccellenza testimonia dell’impraticabilità dell’amare e dell’essere amati al tempo stesso; ovvero “Trilogia della Città di K” della celeberrima scrittrice ungherese Agota Kristof.
Se Zvjancev nel precedente Leviathan (2014) esplicava il nodo amaro dell’inattuabilità di una Giustizia “giusta” a livello giudiziario, nella sua ultima pellicola la sua percezione del mondo diviene più funesta, mettendo in scena la storia di due genitori, moglie e marito, entrambi dalla personalità egoista e narcisista che, all’atto della separazione, non hanno nessuna intenzione di occuparsi del figlio dodicenne, con la chiara volontà di confinarlo in un orfanotrofio.
Zvjagincev rappresenta in tal modo un dramma sociale riguardo ad un’evidente incapacità genitoriale che assurge a sciagura esistenziale. L’ambientazione è a Mosca, dunque in Russia, ma a detta del regista, una vicenda del genere è chiaro che abbia carattere universale.
Zhenya, la madre, interpretata da un’energica Maryana Spivak, è una donna delusa, rattristata per una gravidanza non voluta che poco convintamente ha portato avanti, senza la capacità-durante i dodici anni di vita del figlio-di elaborare il proprio vissuto e sviluppare un sentimento materno verso Alyosha, da lei trattato con il disprezzo tipico degli egotisti che cercano esclusivamente la propria felicità, senza curarsi dell’impatto delle proprie azioni sulle vite altrui. Durante una situazione intima con il nuovo compagno lei afferma “Voglio solo essere felice! Che male c’è!?” Ma la tragedia prodotta dalla negazione dell’affetto ad un minore da parte del caregiver è già maturata.
Il padre Boris, che ha le fattezze dell’intenso Aleksey Rozin, forse meno “crudele” della moglie, è del tutto irresponsabile. Nel punto in cui è raccontata la storia, ha già messo incinta la nuova compagna, personaggio stucchevole altrettanto inadeguato come adulto. Boris insiste affinchè Zhenya convinca la propria madre a prendere con sè il nipote Alyosha. Ma la nonna appare come una sorta di “strega” da fiaba russa. Vive nelle campagne presso Kiev protetta da una robusta cancellata e, soprattutto, non sa amare. Da qui la rappresentazione da parte del regista della trasmissione di modelli famigliari sbagliati di generazione in generazione.
E veniamo ad Alyosha, interpretato da un bravo Matvey Novikov, sebbene si veda poco nelle sequenze del film, perché proprio intorno alla sua assordante assenza, ruota tutto il racconto.
E’la scena più drammatica, quella in cui Alyosha dietro alla porta della propria stanza al buio, piange d’acuta sofferenza sentendo i genitori che si urlano a vicenda la volontà di abbandonarlo in un orfanotrofio. Il giorno successivo fingerà di recarsi a scuola, ma invero scomparirà nel nulla di un paesaggio piombato dal gelo e dalla neve, la cui bellezza è posta molto in risalto dal direttore della fotografia Michail Kricman. I fiocchi di neve ripresi mentre cadono copiosi sul terreno, sembrano alludere alla vita innocente di Alyosha cosi’ trascurata dagli stessi genitori. E ne rammentano l’inesorabile progressiva assenza.
Ed in effetti è una delle insegnanti del ragazzino ad avvertirne la madre della scomparsa. Entrambi i genitori nei due giorni antecedenti alla fuga, sono del tutto dimentichi del figlio, avvicendati nelle proprie relazioni sessuali ed in un’esasperata mania nello scattarsi selfie.
Solo la telefonata da parte della scuola li riconduce alla realtà ed inizialmente ancora non sono del tutto coscienti del climax di dramma che li attende. Con l’intervento della Polizia, Zvjangincev ha modo di descrivere concretamente uno spaccato della realtà sociale russa. L’agente nel film testimonia di quanto grande sia il numero di segnalazioni di minori scomparsi nella sola Mosca e di come i mezzi investigativi a disposizione siano insufficienti.
Proprio a motivo di ciò, la polizia russa si avvale realmente dell’operato della Squadra di Ricerca e Soccorso, un’equipe di volontari altamente specializzata nella ricerca di minori di cui si sono perse le tracce. Il coordinatore della squadra nel film, interpretato da Aleksey Fateev, costituisce una figura concretamente positiva, che si astiene dall’esprimere un giudizio, ma che funge da monito morale ai due manchevoli caregivers.
Il finale è drammatico. Zhenya e Boris realizzeranno il sogno di separarsi e di andare a condurre una banale esistenza con i propri rispettivi nuovi partners, ma a costo della vita della persona più preziosa rispetto a loro: il figlio Alyosha.
Il regista suggella così un dramma inesorabile, volto ad instillare negli spettatori la riflessione su cosa sia veramente essenziale nella vita: i selfie, il divertimento, banali relazioni oppure un figlio, messo al mondo nonostante tutto e del quale, a fine matrimonio, ci si vuole solo sbarazzare come fosse solo un indumento ormai logoro?
Il disamore della società odierna. Da lacrime amare.
Romina De Simone